Tacciare il malcontento popolare come semplice ignoranza rischia di minare le basi della democrazia

Foto Roberto Monaldo / LaPresse11-12-2016 RomaPoliticaQuirinale - Paolo Gentiloni è il Presidente del Consiglio incaricatoNella foto Paolo GentiloniPhoto Roberto Monaldo / LaPresse11-12-2016 Rome (Italy)Quirinale palace - Paolo Gentiloni is the the Prime Minister appointedIn the photo Paolo Gentiloni

Negli ultimi giorni, dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre e la bocciatura della riforma proposta dal governo Renzi, un enorme polverone si è sollevato attorno alla nomina a Presidente del Consiglio di Paolo Gentiloni, ex ministro degli esteri del governo dimissionario. Almeno due dei maggiori partiti, infatti, ovvero Movimento 5 Stelle e Lega, sarebbero voluti andare immediatamente alle urne, e il terzo governo in carica non nominato in seguito ad una consultazione elettorale ha ulteriormente acceso gli animi, perché da molti considerato “illegittimo” e “non eletto”.

Per quale motivo accade questo?

Partiamo dal ricordare che tale meccanismo rispetta perfettamente la Costituzione.
La Repubblica italiana infatti è una repubblica parlamentare: ciò significa che i cittadini votano per l’elezione dei membri del Parlamento, non altro.
E’ poi compito del Parlamento eleggere il Presidente della Repubblica, ed è il Presidente della Repubblica a nominare il Presidente del Consiglio. Generalmente si tratta del capo del partito che ha vinto le elezioni, ma non è un passaggio automatico ed istituzionalizzato. La Costituzione infatti recita semplicemente “Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri“.

Perché allora i partiti o le coalizioni parlano di “candidato premier”? Innanzitutto va chiarito che il premier, ovvero il primo ministro, è una carica differente dal nostro Presidente del Consiglio, per quanto ormai nel linguaggio giornalistico questi termini siano diventati erroneamente sinonimi. Un primo ministro, infatti, ha generalmente poteri maggiori del Presidente del Consiglio italiano: nella repubblica parlamentare inglese, per esempio, è il primo ministro a poter sciogliere la Camera dei Comuni e non il capo dello Stato come in Italia (seppur tale disposizione passi formalmente sotto l’etichetta di decreto reale).
Secondariamente, quello dei partiti è in pratica un “caldo consiglio”. Il motivo per cui il Presidente della Repubblica dovrebbe tenerne conto si spiega in breve.

La volontà del popolo dopo l’elezione non sparisce infatti nel nulla: il controllo e il volere degli elettori si esercitano tramite il Parlamento che deve dare la fiducia al governo eletto. E’ questo il motivo per cui vengono fatte numerosi consultazioni prima della nomina (con i Presidenti delle Camere, per esempio, che riportano gli umori e le preferenze parlamentari, come nei scorsi giorni) e alla fine si preferisce il capo del partito vittorioso delle elezioni, o il nome proposto dalla coalizione che permetterebbe aritmeticamente di ottenere la fiducia nelle due Camere.

Questo vuol dire che nessun cittadino italiano ha mai eletto un governo o un Presidente del Consiglio da quando esiste la Repubblica Italiana: a essere eletto direttamente è stato sempre e solo il Parlamento.
La forte e diffusa convinzione odierna di eleggere il Presidente del Consiglio nasce probabilmente dall’astuta mossa di Silvio Berlusconi di apporre il proprio nome (e il proprio faccione) sulla lista elettorale, ma secondo i meccanismi costituzionali una volta salito al Colle questi avrebbe potuto fare qualsiasi nome di fronte al Presidente.

E’ quindi tramite questa serie di meccanismi che è stato nominato il governo Monti dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi nel 2011, così come il governo di larghe intese di Enrico Letta nel 2013 vista l’impossibilità di Bersani (vincitore delle elezioni politiche, ma azzoppato dalla mancanza di maggioranza al Senato) di formare un governo, e analogamente il successivo governo Renzi e l’attuale governo Gentiloni.

Un discorso a sé merita la convinzione che gli ultimi tre governi siano illegittimi per il fatto che il Parlamento con cui legiferano e da cui ricevono la fiducia sia stato eletto tramite il Porcellum, la legge elettorale successivamente dichiarata incostituzionale dalla Corte Costituzionale.
Le decisioni della Corte Costituzionale non sono retroattive: quando sono state indette le elezioni del 2013 il Porcellum era legge dello Stato, non si sarebbe potuto votare con nient’altro, perciò il Parlamento attuale è legittimo. La stessa Corte Costituzionale lo ha rimarcato più volte, e non si può basarsi sul suo giudizio soltanto a giorni alterni.

Per le elezioni che incombono si utilizzerà in teoria una nuova legge, proprio perché quella vecchia era incostituzionale: l’Italicum per la Camera, il cosiddetto Consultellum per il Senato (il prodotto della Corte in seguito alla sentenza sul Porcellum). Il Governo Gentiloni ha ricevuto il compito di approvare una nuova legge elettorale, ma si scoprirà soltanto a gennaio se dovrà concentrarsi solamente sul Senato o anche sulla Camera: è previsto infatti che la Corte si pronunci nuovamente sulla possibile incostituzionalità dell’Italicum.

Non bisogna sottovalutare l’effetto che questa situazione politica genera sull’opinione pubblica e sul corpo elettorale. Sarebbe infatti un terribile errore tacciare semplicemente di ignoranza costituzionale coloro che si lamentano adducendo in proprio favore le precedenti argomentazioni perché, seppur queste siano spesso il riflesso della propaganda di alcuni partiti di opposizione sulle quali viene effettuato poco approfondimento da parte dei singoli, esse manifestano un malcontento diffuso nei confronti delle istituzioni rappresentative.

In soldoni: chi accusa il governo di non essere legittimo generalmente non si sente rappresentato da esso, a prescindere che faccia parte dell’elettorato di maggioranza o minoranza. Oltre al fatto che le maggioranze che sostengono i governi non sono spesso quelle uscite dall’ultima tornata elettorale, l’altro fattore da considerare è che gli ultimi governi tecnici o di scopo hanno svolto percorsi legislativi che coincidevano soltanto in parte (o per niente) con quelli promossi dagli elettori nelle elezioni. La “mancanza di rappresentanza”, insomma, passa sia dalla percezione di non avere effettivamente eletto il governo in carica, sia dalla convinzione (questa confermata spesso dai fatti) che questi non stia approvando le norme richieste dall’elettorato.

Arroccarsi sulla propria “cultura” (chissà quale poi, siamo tutti incompetenti riguardo alla maggior parte dello scibile) all’interno del proprio ristretto gruppo di conoscenze, rigettare chi è escluso dal circolo, spesso perché basa le proprie opinioni su dati faziosi o posizioni xenofobe, invocare l’abolizione del suffragio universale ogni volta che una votazione non restituisce il risultato che si pensava scontato: sono tutte attitudini e comportamenti per niente innocui e neutrali nei confronti del fenomeno a cui stiamo assistendo nell’ultimo decennio, ma che anzi contribuiscono ad aumentare la rabbia ed inibire la ragione.

In questo panorama di delegittimazione intellettuale, ad un dettaglio in particolare bisogna prestare particolare attenzione: al fatto che, soprattutto fra i giovani, proclamare il proprio voto a sinistra provochi raramente in risposta interrogativi e dubbi di legittimità, mentre proclamare di votare a destra richieda al contrario di doversi lungamente e diffusamente giustificare, al punto da portare alcuni elettori di destra ad evitare il dibattito su temi politici.

I movimenti di sinistra, e di conseguenza molti suoi elettori in alcune fasce della popolazione, hanno infatti sviluppato negli ultimi anni in misura maggiore delle controparti destrorse la convinzione di essere i buoni della situazione, i paladini dalla parte giusta della Storia, e tendono a trattare di conseguenza i propri avversari politici, che siano legislatori o cittadini. Col tempo questo atteggiamento ha provocato un allontanamento e un distacco dai ceti medio-bassi che la sinistra dovrebbe rappresentare, una sempre minor comprensione degli umori e delle motivazioni della piazza e un conseguente restringimento del bacino elettorale. Questa incapacità di percepire i timori che agitano la popolazione, di individuare le problematiche reali e proporre contromisure efficaci, accompagnata da un elitarismo che male si concilia con le intenzioni dei movimenti progressisti, si è percepita in tutta la sua acredine prima col referendum sulla Brexit di alcuni mesi fa e successivamente con l’elezione a Presidente degli Stati Uniti di Donald Trump, seguita a stretto giro dalla reazione incredula delle élite culturali di mezzo globo.

Non è facile comprendere l’origine di questa sindrome nei movimenti di sinistra, ma possiamo azzardare alcune ipotesi.

Il primo seme è stato probabilmente piantato alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La sconfitta dell’Asse fascista e nazista ad opera degli Alleati, con il contributo fondamentale dell’Unione Sovietica comunista (sminuito poi durante la Guerra Fredda sul fronte filo-americano), ha lasciato in eredità alle sinistre moderate il titolo di vincitrici morali del conflitto. Questo è avvenuto nonostante ad opporsi ai regimi fascisti non vi fossero soltanto paesi governati dalle sinistre (Churchill per esempio era un Tory, un conservatore, mentre Roosevelt un democratico, che però rispetto alle nostre categorie politiche corrisponde più ad un esponente della destra moderata), né tantomeno soltanto esponenti di sinistra nelle fila delle resistenze, nei “fronti nazionali”, ma anche nazionalisti di destra che avevano più da perdere dall’avanzata dell’Asse rispetto al proprio odio per il comunismo o per qualche altro stato, nazionalità o gruppo etnico.

La politica italiana del dopoguerra ne è stata profondamente influenzata, tanto che per anni i due partiti di maggioranza sono stati la Democrazia Cristiana (di centro, ma dagli anni ’60 contenente correnti di sinistra) e il Partito Comunista (di estrema sinistra).

Uno snodo importante del dibattito politico e culturale del dopoguerra passa dalle teorie di Antonio Gramsci, uno dei fondatori del PCI e uno dei più grandi pensatori del secolo scorso, morto nel 1937, il quale discusse estesamente del concetto di egemonia culturale: tale nozione indica il meccanismo secondo cui le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne e minoritarie. Gramsci era particolarmente interessato a questo concetto perché voleva spiegare perché le rivoluzioni comuniste previste da Karl Marx non si fossero verificate nei paesi occidentali.

Nella sua teoria Marx introduceva inizialmente il concetto di ideologia come separazione tra teoria e prassi: la realtà concreta (la prassi) portava alla teoria, mentre la separazione della teoria dalla prassi generava l’ideologia. Una particolare formulazione ideale, sociale o politica non poteva essere giustificata di per sé, a prescindere dal contesto storico in cui nasceva (per esempio, sostenere che l’oligarchia è universalmente la tipologia migliore di governo), ma il substrato storico era determinante nel suo insorgere e soprattutto nel suo mantenersi in auge. Mettere in primo piano l’idea staccandola dalla realtà significava creare un’ideologia.
Successivamente Marx introdusse i concetti di struttura e sovrastruttura: una volta che la prassi, le condizioni storiche, davano vita alla teoria (la sovrastruttura) questa non rimaneva isolata ma tornava a modificarla, come successe per esempio nel caso dell’Illuminismo. Figlio delle condizioni storiche della Francia del XVIII secolo, tale movimento non rimase isolato sul cucuzzolo di una montagna, ma modificò prepotentemente la società dando vita alla Rivoluzione Francese. La sovrastruttura secondo Marx, in pratica, era sempre stata storicamente appannaggio della classe dominante. Tramite la nascita dell’ideologia, della separazione tra la teoria e la prassi, la borghesia illuminista francese aveva preteso di assumere il potere politico in quanto detentrice dei valori ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza. In conclusione secondo Marx la classe proletaria, per prendere il potere, avrebbe dovuto fare la stessa cosa: strappare l’egemonia culturale alla borghesia.

Le condizioni storiche che generavano la prassi, la struttura, sono però in continua evoluzione: come aveva fatto perciò la borghesia, si domandava Gramsci, a mantenere il proprio potere intatto sino ad allora (e sino ad oggi)? Secondo il pensatore italiano, la rivoluzione borghese non era ancora avvenuta a causa dell’incontrastata preponderanza della cultura borghese su quella proletaria.

Cosa significa questo? Significa che la classe borghese aveva avuto molto più successo nella creazione di un’ideologia, cioè nella propria rappresentazione culturale di fronte alle massi di lavoratori, di quanto Marx avesse potuto prevedere. A contribuire a questa ideologia erano stati sia l’istruzione obbligatoria sia i mezzi di comunicazione di massa, andando a traviare la classe proletaria che, invece di cercare la rivoluzione per cambiare in meglio la propria situazione, aveva iniziato a riconoscersi nelle filosofie del nazionalismo o del consumismo, quando l’interesse principale di questi non era certo il progredire del tenore di vita dei ceti medio-bassi. La borghesia era riuscita addirittura a convertire il proletariato alla competizione sociale, spaccando il fronte unito che avrebbe potuto crearle grattacapi in tante singole unità egoiste che cercavano di prevalere le une sulle altre mirando all’elevazione della propria condizione individuale, invece che all’elevazione di classe.

Secondo Gramsci, era arrivato il tempo di abbattere l’egemonia culturale borghese e questo era il compito degli intellettuali.

Per l’esercizio del potere, lo Stato come espressione della classe dominante non si basa soltanto sull’egemonia culturale, che agisce tramite la persuasione razionale ed emotiva, ma anche tramite la “dittatura”, intesa come espressione coercitiva del potere politico. Negli stati liberali, democratici, si cerca di raggiungere un’equilibrio tra questi due fattori, con l’egemonia culturale che getta le fondamenta e legittima la forza del potere politico. E’ indispensabile, perciò, per la classe al potere avere il consenso della maggioranza ed è essenziale sviluppare sempre nuovi modi di plasmare a proprio favore l’opinione pubblica, passando anche in questo caso dalla figura degli intellettuali.

Per Gramsci era essenziale però distinguere due tipologie di intellettuali: i cosiddetti intellettuali tradizionali, i quali cercano di elaborare il proprio pensiero al di fuori degli schemi stabiliti dall’egemonia culturale, dagli intellettuali organici, i quali sono invece organicamente collegati alla classe dominante e le forniscono i mezzi intellettuali per la necessaria guida ideologica e culturale della società, esprimendo un pensiero che giustifica il potere vigente.

Lo stato moderno aveva necessità secondo Gramsci di attingere prevalentemente dagli intellettuali organici per il mantenimento dello status quo. La classe proletaria era perciò talmente pervasa dall’ideologia borghese da rendere impossibile passare direttamente dal colpo di stato per la conquista del potere: prima della rivoluzione violenta, la “guerra di movimento“, era necessaria la riconquista dell’egemonia culturale tramite una “guerra di posizione“, attirando al proletariato la classe degli intellettuali tradizionali e formando tra le proprie file gli intellettuali organici, facendo di questi i propri dirigenti politici:

Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere”

Successivamente alla vittoria sarebbe infatti stato compito loro, cioè dei dirigenti politici, mantenere inalterata l’egemonia culturale del proletariato.

E’ ormai chiaro il motivo di questo lungo excursus: ciò a cui abbiamo assistito nel dopoguerra è stata proprio la conversione dell’intellighenzia, dell’élite culturale, verso posizioni care ai movimenti proletari, accompagnate da alcune delle idee progressiste e libertarie che avevano caratterizzato la vittoria della borghesia. La stessa Democrazia Cristiana, espressione inizialmente di posizioni moderate di centro e di stampo cattolico, vide nascere al proprio interno correnti più sinistrorse che portarono al primo governo di centro-sinistra di Aldo Moro nel 1963 in collaborazione con il Partito Socialista di Pietro Nenni.

Eppure, ad un certo punto si deve essere verificata una rottura.
Se la sinistra aveva infatti conquistato l’egemonia culturale, non soltanto costruendo la propria classe di intellettuali organici ma diffondendo a macchia d’olio il proprio pensiero tra i cittadini, è innegabile che adesso l’abbia perduta. Quando l’egemonia culturale della classe dirigente viene meno, i primi per definizione a percepire il cambiamento sono proprio i ceti medio-bassi, i quali sono infatti stati maggiormente attratti rispetto ad altre fasce sociali dal fascino rinvigorito del conservatorismo degli ultimi anni.

Il problema è: quando è iniziata la fase calante? A chiudere in maniera netta e decisa la prima fase della politica italiana e iniziarne una seconda, tanto da far coniare i termini di Prima e Seconda Repubblica, giunsero nel 1992 lo scandalo di Tangentopoli e i processi giudiziari di Mani Pulite, che provocarono il crollo del precedente sistema prevalentemente bipartitico. Alle elezioni del 1987 la suddivisione dei voti era la seguente:

  • DC: 34.31% alla Camera, 33.62% al Senato;
  • PCI: 26.57% alla Camera, 28.33% al Senato;
  • PSI: 14.27% alla Camera, 10.91% al Senato;
  • MSI: 5.91% alla Camera, 6.54% al Senato;

Il distacco tra le posizioni di centro-sinistra e quelle di destra all’interno dell’elettorato era ancora evidente.

Lo scandalo di Mani Pulite partì con l’arresto il 17 febbraio 1992 di Mario Chiesa, membro di spicco del PSI milanese. Alle elezioni successive il MSI, precedentemente primo partito di destra, era stato sopravanzato dalla neonata Lega Nord, movimento animato da aspirazioni secessioniste ma soprattutto dalla reazione contro la corruzione dilagante smascherata da Di Pietro & colleghi, che alle sue prime elezioni prese l’8.65% alla Camera e l’8.20% dei voti al Senato.
L’evento determinante per dare rinnovato vigore ai movimenti di destra fu però sicuramente l’avvento sulla scena politica di Silvio Berlusconi, che si presentò non solo come la reazione alla vecchia politica della società civile, ma anche come l’argine al pericolo comunista, tra l’altro esattamente nel momento storico in cui questo pericolo smise di esistere.
Dato il conflitto di interessi con le sue aziende e date le vicende personali (giudiziarie e non), l’immagine di coloro che decidevano alle urne di votare a destra dando fiducia all’imprenditore milanese venne però col tempo compromessa agli occhi dell’elettore medio di sinistra, che sminuiva le motivazioni degli elettori dell’altro fronte riassumendolo in un mix di simpatia del capo di Forza Italia e fascino dell’essere un self-made man.
L’opposizione non più costruttiva, ovvero volta alla rappresentanza anche delle minoranze nel processo legislativo, ma strenua e aprioristica della sinistra contro Berlusconi in nome della sua impresentabilità e delle sue politiche spesso ad personam venne accompagnata da un dibattito politico sempre più polarizzato e svuotato di contenuti, e favorì lo stesso Berlusconi e la rinascita della destra.

La conquista dell’egemonia culturale è però un processo lento, motivo per cui ancora adesso la vittoria della sinistra nel dopoguerra si riflette nell’attuale classe intellettuale, la quale però esprime un’ideologia, secondo la stessa definizione di Marx: la teoria non riflette più infatti la prassi, ma ne è spesso fortemente distaccata, avendo fatto perdere agli intellettuali di sinistra, che filtrano il mondo attraverso le idee, di vederlo con gli occhi del proletariato. Questa è l’interpretazione che si può dare seguendo le teorie di Gramsci e Marx.

Un’ultima possibilità, non storica o sociologica ma strutturale, deriva dalla sostanza stessa della democrazia elettiva a suffragio universale: la concessione del diritto di voto ad ogni persona maggiorenne rappresenta il riconoscimento dell’uguaglianza di ogni cittadino nel decidere le sorti del proprio paese, mentre la destra, che oggi riassume in sé le posizioni qualificate come conservatrici, fonda in qualche modo le proprie idee sul non egualitarismo. L’uomo, nelle quotidiane relazioni che lo collegano agli altri uomini, agisce utilizzando soprattutto gli elementi che lo differenziano e deve quindi essere valutato di conseguenza. La diversità è l’elemento principe del mondo, che lo rende tale e lo guida, e le diseguaglianze fra le persone inducono ad instaurare rapporti di forza, che secondi alcuni sarebbe stupido sminuire od ignorare. Mentre è innegabile che esistano diseguaglianze che non possono in alcun modo essere giustificate, o altre che trovano posto soltanto nella mente di persone che sono ancora legate ad una visione arcaica del mondo, per il resto queste affermazioni portano a vedere il mondo come regolato da un ordine delicato, che non può essere semplificato riducendo ogni rapporto all’eguaglianza.

In maniera molto riduzionistica, si potrebbe dire che la sinistra abbia ormai consolidato l’idea che in un sistema che riconosce un’equa partecipazione ad ogni individuo alla vita politica non possa poi essere negata l’uguaglianza in ambito economico e sociale, e considera che “alla fine” la destra perderà la propria battaglia nel riconoscere, ma soprattutto legittimare, i rapporti di forza alla base della società.
Questo ragionamento si basa però, tra i tanti, sul presupposto errato che la riconquista della democrazia dopo la Seconda Guerra Mondiale sia definitiva.

La conclusione di questa trattazione si avvale dell’intervento di uno storico di professione. Colpito infatti dalla lettura de “Il secolo breve” di Eric Hobsbawm, che descrive il periodo che va dal 1914 al 1991, aperto e chiuso dalla nascita e dalla morte del sogno comunista, vi presenterò un lungo estratto che si ricollega bene (anche troppo) con quanto stiamo vivendo in questo momento storico di crisi economica e sociale (e, lontano dai nostri tetti sicuri, anche di guerra). Il libro di Hobsbawm non è un semplice elenco di nomi, date ed eventi, ma si prende l’importante e gravoso compito di compiere una completa analisi storiografica e sociologica dei fenomeni che hanno pervaso la parte di XX secolo in esame. Per farlo, ovviamente, l’autore ha dovuto affrontare lo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre, della Crisi economica del ’29 e anche della caduta del liberalismo nel periodo fra le due guerre, che è ciò di cui andremo a leggere. Non verrà citata tutta la parte finale del capitolo IV, solo le parti salienti.

Perché il liberalismo retrocedette tra le due guerre, perfino in paesi che non accettarono il fascismo? I radicali di sinistra, i socialisti e i comunisti in occidente erano propensi a considerare quell’epoca di crisi mondiale come l’agonia ultima del sistema capitalistico. Essi ritenevano che il capitalismo non potesse più permettersi il lusso di reggersi in base alle democrazie parlamentari e di mantenere le libertà dei cittadini, le quali, tra l’altro, avevano fornito la base per i movimenti operai riformisti e moderati. Di fronte a problemi economici insolubili e a una classe operaia sempre più rivoluzionaria, la borghesia doveva ritornare a governare con la forza e con metodi coercitivi, vale a dire doveva instaurare qualcosa di simile al fascismo.

Dopo che sia il capitalismo sia la democrazia liberale sono tornati trionfalmente a riaffermarsi dal 1945, è facile dimenticare il nocciolo di verità contenuto in quell’opinione, benché in essa vi fosse troppa retorica propagandistica. I sistemi democratici non funzionano se non c’è il consenso essenziale della maggioranza dei cittadini verso lo stato e il sistema sociale, o almeno se non c’è la disponibilità a trovare soluzioni di compromesso. A loro volta, queste attitudini sono molto facilitate dalla prosperità economica. Nella maggior parte dell’Europa condizioni simili non erano presenti tra il 1918 e la seconda guerra mondiale. Il cataclisma sociale sembrava imminente o era già accaduto.

E’ doveroso notare come uno degli attuali partiti di maggioranza nel nostro paese, il Movimento 5 Stelle, basi gran parte della propria politica e della propria retorica sull’assunto di non scendere a compromessi con nessun’altra forza politica. Ma torniamo al libro:

Quando i governi dispongono di ricchezza sufficiente a soddisfare tutte le richieste e quando il livello di vita della maggior parte dei cittadini cresce costantemente, la temperatura politica nelle democrazie raramente sale fino alla febbre. Il compromesso e il consenso tendono a prevalere, quando perfino i più appassionati sostenitori della necessità di rovesciare il capitalismo trovano che lo “status quo” è assai meno intollerabile in pratica di quanto lo sia in teoria e quando perfino i più intransigenti fautori del capitalismo danno per scontato che esista un sistema di sicurezza sociale e che vi siano regolari contrattazioni con i sindacati per aumentare i salari e concedere benefici aggiuntivi ai lavoratori.

Tuttavia, come dimostrò proprio la Grande crisi, questa è solo una risposta parziale. Una situazione assai simile – cioè il rifiuto da parte delle organizzazioni operaie di accettare i sacrifici imposti dalla depressione – condusse in Germania al collasso del governo parlamentare e, infine, alla nomina di Hitler a capo del governo, mentre in Inghilterra produsse semplicemente un brusco passaggio da un governo laburista a un «governo nazionale» conservatore all’interno di un sistema parlamentare stabile e saldo come in passato. La depressione non condusse automaticamente alla sospensione o all’abolizione della democrazia rappresentativa, com’è anche evidente dalle conseguenze politiche che essa ebbe negli USA (il “New Deal” di Roosevelt) e nella Scandinavia (il trionfo della socialdemocrazia). Solo in America latina, dove le finanze statali dipendevano, per la maggior parte, dalle esportazioni di uno o due prodotti primari, i prezzi dei quali crollarono repentinamente, la crisi produsse la caduta quasi immediata e automatica di qualunque governo vigente, per lo più mediante colpi di stato militari. Si deve però aggiungere che in Cile e in Colombia ebbe luogo un cambiamento politico in direzione opposta.

Su cosa pensa quindi che si basi Hobsbawm la recessione del liberalismo?

In fondo la politica liberale era vulnerabile perché la sua caratteristica forma di governo, cioè la democrazia rappresentativa, raramente dimostrava di essere un sistema convincente di conduzione dello stato. Inoltre nell’Età della catastrofe raramente esistevano le condizioni per rendere praticabile e tanto meno per rendere efficace il sistema democratico.

La prima di queste condizioni era che tale sistema fosse legittimato da un generale consenso.La democrazia si fonda in se stessa su questo consenso, ma non lo crea; soltanto nelle democrazie stabili e di lunga tradizione il meccanismo di votazioni regolari ha dato ai cittadini, perfino a quelli che parteggiano per la minoranza, il sentimento che le consultazioni elettorali legittimano il governo che da esse scaturisce. Ma poche democrazie tra le due guerre avevano una solida tradizione. Infatti, fino all’inizio del nostro secolo, la democrazia era stata praticata raramente al di fuori degli USA e della Francia. Almeno dieci degli stati europei dopo la grande guerra erano o interamente nuovi o così mutati rispetto all’assetto precedente da non poter accampare alcuna particolare legittimazione dinanzi ai cittadini. Ancor meno numerose erano le democrazie stabili. Nell’Età della catastrofe molto spesso le politiche degli stati furono politiche di crisi.

La seconda condizione richiesta per un sistema democratico era che ci fosse compatibilità fra le varie componenti del «popolo», il cui voto sovrano doveva determinare il governo comune. La teoria ufficiale del liberalismo borghese non riconosceva il «popolo» come un insieme di gruppi, di comunità e di altre collettività, portatrici in quanto tali di interessi, benché lo facessero gli antropologi, i sociologi e tutti gli uomini politici. Ufficialmente il popolo, inteso come un concetto teorico piuttosto che come un reale corpo politico composto di esseri umani, consisteva di un’assemblea di individui indipendenti i cui voti si cumulavano producendo maggioranze e minoranze aritmetiche, le quali attraverso la rappresentanza parlamentare si traducevano in maggioranze di governo e minoranze di opposizione. Quando il voto democratico attraversava le linee di divisione della popolazione o quando era possibile conciliare o stemperare i conflitti, lì la democrazia era praticabile. Però, in un’era di rivoluzioni e di tensioni sociali radicali, di norma la politica rifletteva la lotta di classe e non la pace sociale. L’intransigenza ideologica e di classe poteva distruggere il regime democratico. […]

La terza condizione era che i governi democratici non dovevano svolgere un’ampia attività di governo. I parlamenti erano stati creati non tanto per governare, quanto per controllare il potere dei governanti, una funzione che appare ancora evidente nei rapporti fra il congresso e il presidente negli Stati Uniti. I parlamenti erano marchingegni escogitati per fungere da freni, che si ritrovarono a dover funzionare come motori. Le assemblee parlamentari, nelle quali risiedeva il potere sovrano, elette in origine a suffragio ristretto e poi, nel corso degli anni, a suffragio sempre più allargato, erano divenute comuni dall’età delle rivoluzioni borghesi. La società borghese ottocentesca riteneva però che il grosso delle attività dei cittadini non dovesse essere regolato dal governo, ma rientrasse nella sfera autoregolantesi dell’economia e nel mondo delle associazioni private e non ufficiali, che costituivano la cosiddetta «società civile». La società borghese dell’800 aggirava in due modi la difficoltà di governare attraverso le assemblee elettive: innanzitutto non si aspettava che i parlamenti svolgessero un’ampia attività di governo e neppure un’ampia attività legislativa; inoltre riteneva che l’azione di governo, o per meglio dire l’amministrazione, potesse essere portata avanti a prescindere dagli umori mutevoli delle assemblee parlamentari. Come abbiamo visto, un insieme di funzionari pubblici indipendenti, con incarichi fissi, era diventato indispensabile per il governo degli stati moderni. L’appoggio della maggioranza parlamentare si rendeva indispensabile solo quando dovessero essere prese o approvate gravi e discutibili decisioni di governo. Il compito principale dei capi di governo era dunque quello di organizzare e di preservare il consenso in parlamento (a eccezione dell’America, nei regimi parlamentari l’esecutivo non era in genere eletto direttamente dai cittadini). Negli stati a suffragio ristretto (cioè con un elettorato composto prevalentemente da una minoranza ricca, potente o influente), questo compito era reso più facile dal consenso comune intorno a ciò che era l’interesse collettivo della minoranza della popolazione rappresentata in parlamento (interesse che veniva definito altresì come «interesse nazionale»), per non parlare del ricorso ai legami clientelari.

Il ventesimo secolo moltiplicò invece le occasioni in cui per i governi divenne essenziale governare. Il tipo di stato che si limitava a fissare le regole basilari per l’economia e la società civile, e a gestire la polizia, le prigioni e le forze armate per tenere sotto controllo i pericoli interni ed esterni, lo stato «guardiano notturno» dei teorici della politica, diventò così obsoleto come la figura del «guardiano notturno» che aveva ispirato la metafora.

La quarta condizione era la ricchezza e la prosperità. Le democrazie degli anni ’20 andarono a pezzi sotto la tensione di movimenti rivoluzionari e controrivoluzionari (Ungheria, Italia, Portogallo) o di conflitti nazionali (Polonia, Jugoslavia); quelle degli anni ’30, sotto la tensione della crisi. Per convincersene basta soltanto paragonare l’atmosfera politica della Germania di Weimar e dell’Austria del 1920 con quella della Germania federale e dell’Austria dopo il 1945. Perfino i conflitti nazionali divengono più controllabili, fintanto che i rappresentanti politici di ogni minoranza possono sfamarsi alla mangiatoia comune. Fu questa situazione che diede forza al partito agrario nella sola democrazia autentica dell’Europa centro-orientale, la Cecoslovacchia: esso beneficò tutti al di sopra delle divisioni etniche. Negli anni ’30, neppure la Cecoslovacchia poté più tenere insieme i cechi, gli slovacchi, i tedeschi, gli ungheresi e gli ucraini.

Mancando queste condizioni la democrazia rischiava di essere sempre più un meccanismo per formalizzare le divisioni tra gruppi inconciliabili. Molto spesso, anche nelle migliori circostanze, la democrazia non produceva affatto una base stabile per un governo, specialmente quando la dottrina della rappresentanza democratica veniva applicata nelle versioni più rigide del sistema proporzionale (I cambiamenti continui dei sistemi elettorali nei paesi democratici – dal sistema proporzionale a quello uninominale eccetera – sono tutti tentativi di assicurare o di mantenere maggioranze stabili che permettano una stabile azione di governo in sistemi politici che, per la loro stessa natura, rendono tutto ciò assai difficile).

Dove, in tempi di crisi, non era disponibile alcuna maggioranza parlamentare, come in Germania (diversa in ciò dalla Gran Bretagna), la tentazione di guardare altrove era assai forte. In Inghilterra il rifiuto di introdurre ogni forma di rappresentanza proporzionale («il vincitore prende tutto») ha favorito un sistema bipartitico e ha marginalizzato le altre formazioni politiche; dalla prima guerra mondiale ne ha fatto le spese il partito liberale, una volta egemone, sebbene abbia continuato a raccogliere un costante 10% dei voti (il dato era ancora valido nel 1992). In Germania il sistema proporzionale, benché abbia favorito lievemente i partiti maggiori, non consentì ad alcun partito di vincere più di un terzo dei seggi dopo il 1920 (a eccezione del partito nazista nel 1932) [le informazioni di Hobsbawm si fermano ovviamente in questo senso al 1995, data di pubblicazione del libro]. Vi erano cinque partiti maggiori e una dozzina di raggruppamenti minori. In assenza di una maggioranza parlamentare, la costituzione prevedeva un governo provvisorio dotato di poteri eccezionali, vale a dire prevedeva la sospensione della democrazia.

Perfino nelle democrazie stabili le divisioni politiche che il sistema comporta sono considerate da molti cittadini come costi del sistema e non come suoi benefici. E’ proprio la retorica politica che presenta i candidati e il partito come rappresentanti dell’interesse nazionale e non come espressione di ristretti interessi di parte. In tempi di crisi i costi del sistema sembrano insostenibili, mentre i suoi benefici appaiono incerti.

Date queste circostanze è facile capire che la democrazia parlamentare negli stati che succedettero ai vecchi imperi, come pure in molti paesi mediterranei e nell’America latina, era una pianta debole che cresceva in un terreno sterile. Il più forte argomento a suo favore, e cioè che, per quanto difettoso, il sistema democratico è migliore di tutti gli altri, è esso stesso assai poco convincente. Tra le due guerre quasi mai questo argomento sembrava realistico e persuasivo. Perfino i fautori a oltranza della democrazia si esprimevano con poca sicurezza. La sua ritirata appariva inevitabile, tanto che perfino negli USA osservatori inutilmente pessimistici notavano che il tramonto della democrazia «può avvenire anche qui».

Con tutte le riflessioni che questo estratto può suscitare, non vi è modo migliore di concludere se non con la riflessione finale dello stesso Hobsbawm:

Nessuno prevedeva o si aspettava seriamente la sua rinascita postbellica, ancor meno il suo ritorno, sia pure breve, come forma predominante di governo in tutto il mondo nei primi anni ’90. Per quanti oggi guardano dietro al periodo tra le due guerre, la caduta dei sistemi politici liberali può sembrare come una breve interruzione nella loro conquista secolare del pianeta. Purtroppo, mentre si avvicina il nuovo millennio, le incertezze sul futuro della democrazia non appaiono più così remote.

Può darsi che il mondo stia infelicemente entrando in un periodo in cui, di nuovo, i vantaggi della democrazia non appariranno così ovvi com’è accaduto fra il 1950 e il 1990.

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[Un ringraziamento speciale va al mio amico Giulio, che mi ha permesso di integrare la mia trattazione rendendomi edotto dell’esistenza delle teorie di Gramsci]

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