Tacciare il malcontento popolare come semplice ignoranza rischia di minare le basi della democrazia

Foto Roberto Monaldo / LaPresse11-12-2016 RomaPoliticaQuirinale - Paolo Gentiloni è il Presidente del Consiglio incaricatoNella foto Paolo GentiloniPhoto Roberto Monaldo / LaPresse11-12-2016 Rome (Italy)Quirinale palace - Paolo Gentiloni is the the Prime Minister appointedIn the photo Paolo Gentiloni

Negli ultimi giorni, dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre e la bocciatura della riforma proposta dal governo Renzi, un enorme polverone si è sollevato attorno alla nomina a Presidente del Consiglio di Paolo Gentiloni, ex ministro degli esteri del governo dimissionario. Almeno due dei maggiori partiti, infatti, ovvero Movimento 5 Stelle e Lega, sarebbero voluti andare immediatamente alle urne, e il terzo governo in carica non nominato in seguito ad una consultazione elettorale ha ulteriormente acceso gli animi, perché da molti considerato “illegittimo” e “non eletto”.

Per quale motivo accade questo?

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♪♬ Dovremo soltanto reimparare a legiferare, se non ci sei tu, Senato ♩ ♫

“Non è che ho paura del referendum costituzionale. E’ che non voglio esserci quando accadrà”

Woody Allen

Il 4 dicembre gli Italiani sono nuovamente chiamati a esprimersi in una consultazione referendaria, ma a differenza del referendum abrogativo di aprile si troveranno di fronte ad un referendum costituzionale, incentrato sulla legge che porta il nome dell’attuale ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi, promotrice principale assieme al governo Renzi.

Il referendum costituzionale è previsto dall’articolo 138 della costituzione italiana e deve essere indetto entro tre mesi dall’approvazione da parte del parlamento delle leggi di revisione costituzionale. Per essere valido non c’è bisogno di raggiungere il quorum. A differenza del referendum abrogativo, cioè, non è necessario che vada a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto. Continua a leggere

Abolire il Senato e tenere l’Italicum, o abolire l’Italicum e tenere il Senato?

matteo-renzi-lingua-278683In questi giorni stiamo assistendo a uno dei momenti più delicati della storia politica italiana degli ultimi anni. I temi caldi sul tavolo sono la nuova legge elettorale (il voto è approdato al Senato dopo l’approvazione della Camera) e l’abolizione del bicameralismo paritario, ovvero la diminuzione dei poteri del Senato a favore della Camera.

Se questa riforma andasse in porto, il Senato non sarebbe più un organo legislativo con pieni poteri: la Camera cioè potrebbe approvare delle leggi senza che vengano approvate anche dal nuovo ‘Senato delle autonomie’, come verrebbe rinominato. Questi diverrebbe perciò un organo consultivo, a cui non verrebbe più chiesto di votare né la legge di bilancio, né la fiducia al governo, mentre continuerebbe a votare le riforme costituzionali. Non sarebbe nemmeno più un organo elettivo: ne farebbero parte, oltre agli ex presidenti della repubblica e i senatori a vita, alcuni rappresentanti delle regioni e dei comuni. Sarebbe composto da 148 persone: 21 nominati dal presidente della repubblica e 127 rappresentanti dei consigli regionali e dei comuni. Essendo già stipendiati per la loro carica, essi non riceverebbero più l’indennità.

Non è una novità, nel panorama politico italiano: tra la commissione Bozzi (1983), De Mita-Iotti (1992), D’Alema (1992, la famigerata ”bicamerale”), e svariate altre proposte, fin dagli anni Settanta l’idea viene portata avanti senza ottenere mai qualcosa di concreto. Si andò più vicini che mai al traguardo tra 2004 e 2005 quando il governo Berlusconi approvò una radicale modifica di una cinquantina di articoli della Costituzione, la cosiddetta devolution (per saperne qualcosa di più leggi qui), per la quale però non vennero raggiunti i due terzi dei voti favorevoli necessari a evitare il referendum confermativo. Questo si tenne nel giugno del 2006 e bocciò la riforma con oltre il 60 per cento dei voti contrari.

Referendum confermativo? Due terzi dei voti? Chiariamoci un attimo le idee: per riformare il Senato è necessario approvare una di quelle che viene definita “legge di revisione costituzionale”, che è prevista dalla Costituzione stessa nei suoi ultimi articoli: l’articolo 139 specifica solo che «la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale», mentre il percorso per arrivare alle modifiche, stabilito dall’articolo 138, prevede per prima cosa che la legge di revisione sia approvata una prima volta da entrambi i rami del Parlamento con una maggioranza relativa (i sì devono superare i no). Prima di arrivare in aula la legge viene elaborata o in un’apposita commissione parlamentare o in una commissione Affari costituzionali, col fine di giungere alle votazioni con una legge che abbia già i numeri per essere approvata.

Dopo la prima votazione in entrambe le camere, è necessaria la cosiddetta pausa di riflessione: dopo almeno tre mesi, si torna a votare lo stesso testo, ma questa volta la maggioranza con cui deve essere approvato è assoluta (50%+1 dei voti). A questo punto si aprono due strade. Se la maggioranza che ha approvato la legge di revisione costituzionale è dei due terzi sia alla Camera che al Senato, allora il percorso si conclude: il presidente della Repubblica promulga la legge e la modifica entra in vigore alla data prevista. In questo caso, l’iter si è svolto interamente all’interno del parlamento; questa sarebbe anche la strada che richiede meno tempo, circa tre mesi da quando la proposta è stata presentata alla prima camera.

Se invece la maggioranza parlamentare non raggiunge i due terzi, allora scatta un’altra scadenza temporale di tre mesi. In questo periodo, un quinto dei membri di una Camera oppure 500.000 elettori oppure 5 Consigli regionali possono chiedere che sulla modifica si tenga un referendum “costituzionale” per confermare o bocciare la modifica. Il referendum costituzionale ha la particolare caratteristica di non richiedere un quorum per essere valido. Se invece i tre mesi passano senza che nulla accada, la legge viene approvata definitivamente. In Italia si è ricorso solo due volte al mezzo del referendum costituzionale: nel 2001 per la riforma del Titolo V della Costituzione, che venne approvata, e nel 2006 per la già citata devolution del governo Berlusconi, che venne respinta.

A questo punto viene da chiedersi: perché si vuole abolire il Senato? Le motivazioni odierne riguardano principalmente la logica degli sprechi di tipo economico, ma in realtà il dibattito sul ruolo del secondo ramo del Parlamento ha contraddistinto la Repubblica Italiana fin dagli albori, perché anche durante l’Assemblea Costituente si dovette fronteggiare la necessità di stabilire se assegnare il potere a una o due assemblee dai compiti più o meno equipollenti, e le posizioni erano contrastanti. Da un lato, infatti, le sinistre (comunisti, socialisti e azionisti) si dichiararono favorevoli al monocameralismo, sull’onda dell’idea di un’unica e, perciò non frazionabile, sovranità, che doveva essere necessariamente rappresentata in un unico centro decisionale, ma erano una decisa minoranza di pensiero; dall’altro laici e democristiani si fecero portatori del necessario assetto bicamerale, anche se, all’interno di questo seconda frangia, si avevano ulteriori divisioni sulla ipotetica composizione della seconda Camera. Chi doveva essere rappresentato nella seconda assemblea governativa? A questo quesito la Democrazia cristiana e liberali rispondevano proponendo di coinvolgere nel progetto della seconda Camera tutti gli operatori (economici e culturali) della società civile, mentre repubblicani e alcuni rappresentanti della componente laica in sede di costituente elaborarono quel concetto, seppur a livello embrionale, di rappresentanza regionale all’interno dell’organo parlamentare.

Alla fine, invece di essere un risultato condiviso da tutti i costituenti, il ruolo del nascente Senato fu invece il prodotto di un taglia e incolla di testi redatti di volta in volta dai diversi partiti politici. Il sistema parlamentare nacque quindi come bicamerale, ma furono accolte le proposte Leone e Tosato riguardo l’equipollenza dei compiti delle due assemblee e l’elezione dei membri del Senato su base regionale. La scelta cadde sull’opzione bicamerale perciò senza dar conto di una vera e propria ragione giustificatrice bensì recependola come presupposta e scontata, concentrando così la discussione in Costituente solo sulla declinazione da dare alla seconda Camera, elaborando una serie di varianti attinenti alla natura ed al funzionamento della stessa, che si elidevano l’una con l’altra. La vera funzione del Senato si comprese in corso d’opera: avrebbe garantito la presenza di una sorta di ‘camera di riflessione’ per giungere a scelte più condivise e assicurare la democraticità delle scelte prese dai deputati.

Se un ”accordo” venne raggiunto sulla funzione dell’assemblea, molto di più ci volle perché ci si stabilizzasse sui suoi eletti. Si discusse sull’ipotesi di partecipazione corporativa e quella di matrice regionale, sull’ipotesi di elezione diretta oppure tramite il beneplacito delle elezioni regionali. Le posizioni precise all’interno del dibattito non sono importanti: ciò che conta comprendere è che quello a cui si giunse fu un approdo casuale, a cui si pervenne non sulla base di un disegno preciso, ma, nella sostanza, per effetto di una serie di no: no alle ipotesi mono-cameraliste, no al Senato delle Regioni, no al Senato corporativo.

Una volta attivato l’apparato burocratico e legislativo, si dovette attendere poco per stabilire se l’effetto del Senato sarebbe davvero stato quello di compensatore oppure avrebbe solo contribuito a raddoppiare i tempi di approvazione delle leggi. Fin dalla prima legislatura, purtroppo, ci si rese conto dell’incidenza in punto di legiferazione della presenza di un partito politico predominante che, in pratica, appiattiva qualsiasi parvenza di
differenziazione tra i lavori delle due Assemblee, cosicché il Senato iniziò a essere visto come un (inutile) duplicato della Camera dei Deputati. Il timore della Democrazia Cristiana era però quello di vedere aumentare l’influenza delle sinistre nell’altra camera, e i successivi tentativi e progetti di riforma, utilizzando l’istituto dei senatori a vita che rifuggiva dalla scelta popolare e tentando di reintrodurre la matrice corporativa arenatasi nella Costituente, promossero l’obiettivo di rivedere un sistema bicamerale connotato dalla lungaggine dei tempi di approvazione, celando sotto mentite spoglie il reale intento di circoscrivere la progressiva espansione delle forze di sinistra. In seguito, quando la posizione della DC si fece meno forte, ci si rese conto che, al contrario, se non era presente un’unica forza politica predominante che poteva permettersi la maggioranza schiacciante in entrambe le assemblee, la presenza della doppia camera favoriva l’arenarsi di proposte dannose per il paese.

Lasciando da parte tutti i successivi progetti di riforma, possiamo guardare con occhio un po’ più critico chi afferma che toccare il Senato sarebbe un torto e un’eresia verso i nostri padri costituenti. Ci sono un sacco di cose che la nostra bellissima Costituzione contiene e che sono il frutto della mediazione tra le varie anime dell’Assemblea Costituente: il Senato non sembra essere una di queste. La seconda camera ha, nell’ordinamento attuale, la funzione già citata di filtrare ciò che arriva dalla Camera, e il fatto che negli anni molte leggi dannose per il paese siano comunque state rese operative non pregiudica questa sua funzione: nessun filtro è perfetto. Eppure la volontà di Matteo Renzi è quella di eliminarlo: perché?

La logica degli sprechi è facile da riassumere: spendiamo troppo, e troppi politici che vivono sulle spalle dei lavoratori non servono, quando per legiferare basta una camera sola. Perciò, caput, via il Senato. E’ un riassunto molto semplicistico, lo ammetto, ma era per arrivare velocemente al punto: mantenere 300 e passa senatori costa. Eppure, se volessimo mantenere l’azione di filtro ma diminuire le spese, basterebbe tagliare parlamentari da ambo i lati. C’è invece chi dice che abbiamo troppi parlamentari, punto. Ma cosa vorrebbe dire? Se andiamo a vedere il numero di parlamentari ci collochiamo secondi, dopo la Gran Bretagna:

Regno Unito 1.374 membri
Italia 952 membri
Francia 925 membri
Germania 691 membri
Spagna 614 membri
Stati Uniti 535 membri
.
Se andiamo a vedere, al contrario, dove si trova l’Italia per numero di parlamentari ogni 100.000 abitanti, siamo al 22° posto. (clicca qui per la classifica intera) Il problema non è quanti parlamentari abbiamo, ma l’enorme sproporzione che esiste tra PIL pro-capite e il compenso medio dei parlamentari: 30.000 contro 144.000 euro (e il PPP è alzato dai ricconi, l’italiano medio non ha 2300 euro in tasca a fine mese).

Problemi di soldi o problemi di numeri, che si trasformano in problemi di soldi… oppure sono quelli di tempo, che ci preoccupano? Sono i lunghi tempi di manovra che non vogliamo? Non è la Costituzione che stabilisce la durata delle operazioni parlamentari: basta riformare quelle e siamo a posto.

L’azione di filtro sembra essere l’unico grande motivo per cui il Senato ha resistito così a lungo, dati tutti gli attacchi a cui è stato sottoposto. Eliminarlo significa dover produrre una controparte che ne faccia le veci, o avere una legge elettorale che impedisca che con una sola camera ci si ritrovi sotto la dittatura di un solo partito che ottenuta la maggioranza assoluta abbia il potere di stravolgere le istituzioni del paese, serve un sistema inoltre che rappresenti efficacemente le volontà del paese e, se possibile, garantisca la governabilità. Qui, se vogliamo, casca l’asino: ciò che Matthew Mr. Renzie vuole fare è abolire prima di tutto il Senato (cioè lo step 2), poi votare per la legge elettorale, cioè il mezzo che fornisca la controparte (lo step 1).

E’ il mondo a rovescio, non vi pare? Ma non è finita qui. Non stiamo parlando della possibilità che tra l’abolizione del Senato la stupenda e perfetta legge votata alla Camera venga modificata in modo da non garantire più l’esistenza di un sistema democratico, ma di una “cosa” da approvare che è molto molto simile alla precedente legge bocciata dalla Consulta, il cosiddetto Porcellum, che nasce dal connubio Renzi-Berlusconi (quindi, figuratevi…!) e che già adesso non farebbe assolutamente da garante (e le leggi in Parlamento peggiorano e basta andando avanti, non migliorano mai, a forza di emendamenti e compromessi). Se neanche la legge elettorale da una mano, nessuno ci preserverà da una svolta autoritaria in futuro, e neanche da una legislazione assolutamente scadente, poiché nessuno ci può garantire che in futuro i parlamentari siano più capaci dei loro predecessori (o più onesti).

Voi direte: ma io non so nulla della legge elettorale. Ebbene, adesso andremo a dare un’occhiata a cosa stabilisce. Rimarchiamo per un’ultima volta, però: non consideriamo il Senato un mostro sacro che non può essere toccato per non attentare alla memoria dei padri costituenti. E’ un istituzione che può essere cambiata: Eraclito diceva “Non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare”. Il punto è che il Senato ha una funzione, e se Renzi si prende la responsabilità di abolirlo deve fornirne un sostituto. Se qualcosa va sacrificato, però, non è il rispecchiare la volontà del paese, ma la governabilità.

Andiamo perciò a fare un veloce viaggio tra le ultime leggi elettorali, perché ovviamente non si può capire se una legge potrebbe funzionare o meno senza sapere come sono funzionate le cose finora.

Legge elettorale del 1946:

La prima legge elettorale dell’Italia repubblicana è un proporzionale sostanzialmente puro rimasto in vigore fino al 1993. La distribuzione dei seggi avveniva alla Camera in forma proporzionale pura, e al Senato di fatto anche, essendo prevista l’assegnazione del seggio di ciascuno dei collegi di ogni regione al candidato che avesse superato il 65% (quorum che quasi mai veniva raggiunto) e in alternativa proporzionale puro con redistribuzione dei voti con metodo D’Hondt. L’unico grande cambiamento durante tutti questi anni avvenne quando nel 1953 il governo De Gasperi tentò di introdurre un premio di maggioranza: l’assegnazione del 65% dei seggi alla forza politica che avesse ottenuto almeno il 50%+1 dei seggi. La norma, proposta in Aula dal ministro dell’Interno Mario Scelba, fu contestata duramente dalle opposizioni che la ribattezzarono «legge truffa», perché a loro dire avrebbe alterato fortemente il risultato elettorale. Non diede mai effetto perché nessuno riuscì a superare il 50% (la coalizione tra Dc, Psdi, Pli, Pri, Svp e Partito sardo d’azione arrivò al 49%). E l’anno successivo venne abrogata. Nel 1991 venne abrogato con un referendum la scelta multipla per le votazioni alla Camera, e nel 1993 poco prima del Mattarellarum la soglia del 65%.

Mattarellarum:

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Sergio Mattarella

Dal 1993 al 2005 si votò con la legge Mattarella, soprannominata Matterellarum dal politologo Giovanni Sartori, un sistema misto di proporzionale e maggioritari. Come oggi abbiamo bisogno di una nuova legge elettorale perché l’ultima è stata giudicata incostituzionale, anche allora vi furono numerosi motivi per cui si dovette ricorrere a una variazione nel sistema di voto. La generale insofferenza del paese verso la classe politica, colpevole di grandi sprechi e incapace di avviare un cambiamento che nel resto del mondo aveva portato al crollo del muro di Berlino e alla caduta del regime sovietico, stava iniziando a palesarsi. Il primo segnale della tempesta che stava per esplodere fu il crescente consenso elettorale alla Lega Lombardia (attuale Lega Nord), che veniva considerata una forza totalmente anti-sistema, e ben poco considerata dalle altre forze politiche. Il secondo segnale fu il referendum del 1991 che, come detto in precedenza, abolì le preferenze multiple alla Camera (fonte di infiniti giochi loschi, per vedere una scena dal film ‘Il portaborse’ con Nanni Moretti e Silvio Orlando clicca qui)

In realtà, tale decisione non avrebbe alterato molto gli equilibri politici, ma nello stesso periodo il Partito Socialista e la DC erano riuscite a bloccare alla Corte Costituzionale altri due referendum ben più incisivi: l’abolizione della soglia del 65% per vincere nei collegi uninominali al Senato e l’estensione a tutti i comuni del sistema maggioritario previsto per i comuni sotto i tremila abitanti. La pressione dei politici a non andare a votare a questa consultazione (Craxi invitò la gente ad andare al mare) portò invece al risultato opposto: una partecipazione del 62.5% e una valanga di sì per l’abolizione, 95.6%. Il terzo segnale, praticamente uno schiaffo, fu l’esplosione di Tangentopoli. Infine, il quarto segnale fu il referendum del 1993, 18 aprile, con cui come già detto venne abolita la norma riguardante il Senato che due anni prima era stata bloccata dalla Corte, oltre che ai finanziamenti pubblici ai partiti e tre ministeri.

Dopo tutto questo, il popolo voleva passare dal proporzionale puro al maggioritario, per farla finita coi governi che duravano solo sei mesi e non producevano nulla di fatto. La legge elettorale che venne prodotta, il ‘colpo di coda‘ della Prima Repubblica, fu invece il capolavoro dei sistemi misti. Cosa prevedeva? Un sistema maggioritario a turno unico per la ripartizione del 75% dei seggi parlamentari, 475 collegi uninominali per la Camera, 235 per il Senato. I restanti voti, il 25%, cioè 155+83 seggi, veniva spartito in maniera differente a seconda dell’assemblea. Per la Camera, proporzionale con liste bloccate: si votava cioè su un’altra scheda per la parte restante di seggi, con uno sbarramento del 4% per poter accedere a questi voti, e utilizzando il metodo Hare e altri complicati calcoli per la divisione dei seggi. Per il Senato, invece, era stato deciso il recupero proporzionale dei più votati non eletti attraverso un meccanismo di calcolo denominato “scorporo totale“, utilizzando il metodo d’Hondt delle migliori medie.

Voi direte: non ci si capisce niente. E infatti era proprio così: non ci si capiva un bel niente. Quella legge elettorale sommava il peggio dei due mondi: non garantiva una reale stabilità governativa (nel 1994 e 1996 i governi Berlusconi e Prodi caddero perché parti della propria coalizione elettorale abbandonarono lo schieramento), made in proporzionale, e non rispecchiava fedelmente la volontà degli elettori, made in maggioritario. Eppure molti politici, una volta sorte le critiche sul Porcellum, caldeggiavano il ritorno a QUESTA legge elettorale. Sarà stata davvero meglio, o Calderoli riuscì per davvero nel lontano 2005 a produrre uno schifo insulso più insensato di questo? Andiamo a dare un’occhiata.

Porcellum:

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Roberto Calderoli

La legge Calderoli, promulgata il 21 dicembre 2005, viene ricordata col nome di ‘Porcellum’ perché lo stesso ministro in seguito negli studi di Matrix la definì una porcata. Come tante altre leggi del governo Berlusconi, anche questa rispondeva all’esigenza del momento di garantirsi un vantaggio personale, in questo caso elettorale, che si sarebbe concretizzato l’anno successivo. Cosa prevedeva la passata legislazione?

Per le votazioni alla Camera il territorio era diviso in 27 circoscrizioni, con liste bloccate senza preferenze. Vi era un complicato giro di soglie di sbarramento: per le coalizioni era necessario aver ottenuto in tutto il Paese almeno il 10% dei voti, e all’interno della coalizione almeno una lista doveva aver superato il 2% (per evitare di avere coalizioni formate da 20 partiti con lo 0,5%). Invece le liste non appartenenti a coalizioni dovevano superare almeno il 4% dei voti su base nazionale. Allo stesso modo, se una coalizione non superava il 10% ma una delle sue liste supera il 4%, allora tale lista partecipava da sola alla ripartizione dei seggi. La coalizione vincente acquisiva almeno 340 seggi su 630, indipendentemente dal totale dei consensi raccolti: il premio di maggioranza veniva assegnato senza una soglia minima, il che poteva anche raddoppiare i consensi, vedi le ultime elezioni quando il PD si ritrovò in mano la maggioranza alla Camera, 54%, con un risicato 29.5% di consensi. Inoltre, tale premio veniva mantenuto anche se le coalizioni si spezzavano subito dopo: questo accadde nell’ultimo governo Berlusconi, con la scissione di Futuro e Libertà dopo 2 anni, o nelle ultime elezioni la divisione tra PD e Sel, passata all’opposizione dopo 2 mesi, che mantenne i 37 seggi alla Camera frutto della sua quota di premio di maggioranza che non avrebbe mai avuto se non si fosse presentata insieme al Pd (anzi, con il 3,20% non sarebbe neppure entrato in Parlamento essendo prevista per Montecitorio una soglia di sbarramento al 4%).

Diverso il discorso per il Senato. Le circoscrizioni corrispondevano alle regioni. Anche qui il sistema era proporzionale con premio e sbarramento, ma l’attribuzione dei seggi veniva fatta su base regionale. Diverse anche le soglie di sbarramento: 20% per la coalizione, 3% per la singola lista interna ad una coalizione e 8% per la lista indipendente. Era regionale anche il premio di maggioranza. In ogni Regione, se nessuna coalizione o lista indipendente raggiunge il 55% dei seggi, veniva attribuito il premio a chi otteneva più voti degli altri, raggiungendo quindi il 55%. Sistema diverso anche per le circoscrizioni Estero, che assegnavano 6 senatori e 12 deputati. Qui la lista più votata vince tutti i seggi in palio.

Perché dovrebbe essere a favore di Berlusconi? Visto che tra le Regioni che assegnavano più senatori molte erano storicamente governate dal centrodestra, la legge fu vista come un vantaggio che la coalizione di Berlusconi comprendente anche An e Udc volle darsi in vista della sfida del 2006 con il centrosinistra di Prodi che sulla carta appariva avvantaggiato. Quelle elezioni si conclusero con un quasi pareggio e Prodi riuscì ad avere una maggioranza risicatissima al Senato che rese la sua coalizione estremamente debole (e infatti dopo due anni naufragò). Con il “Porcellum” si è votato nel 2006 (vittoria Prodi), nel 2008 (vittoria Berlusconi con maggioranza molto ampia, anche per i motivi di cui sopra) e nel 2013 (il “primi ma non abbiamo vinto” di Bersani).

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”..orcoboia, ragasssi..”

Perché la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima la legge Calderoli in alcuni suoi punti? Innanzitutto, per il premio di maggioranza senza soglia che distorce la volontà popolare. Le liste bloccate poi, essendo composte da un gran numero di nomi, non permettevano all’elettore di sapere per chi effettivamente stesse votando. La Corte non ha giudicato in sé incostituzionale avere le liste bloccate, e come vedremo Renzi ha subito messo le mani su questa fortuna. Le passate elezioni sono state dichiarate, invece, legittime: gli effetti della sentenza si applicheranno solo alle nuove elezioni. Da questo la fretta di una legge elettorale, che adesso andremo a illustrare.

Italicum:

Questo è invece, in breve, ciò che prevede la legge passata alla Camera a metà marzo.

Premio di maggioranza. La coalizione che conquista il 37% dei voti guadagna anche il premio di maggioranza, ottenendo il 55% dei seggi, pari a 340, soglia che non può essere superata. Se nessuna delle coalizioni ottiene questo risultato, si va al secondo turno tra le due prime coalizioni, la vincitrice ottiene però solo 327 seggi. Da questo calcolo sono esclusi i 12 seggi della circoscrizione estera.

Soglie di sbarramento. Le soglie di sbarramento sono molto alte. Una coalizione deve raggiungere almeno il 12% per accedere alla ripartizione dei seggi, mentre i partiti interni a una coalizione, per entrare in Parlamento, devono arrivare al 4,5%. I partiti interni a una coalizione che non raggiungono questa soglia, “regalano” i loro voti ai partiti che hanno superato la soglia. Soglia di sbarramento altissima per i partiti che non si coalizzano: 8%.

Le liste bloccate. Saranno al massimo 120 i collegi in cui i candidati si presenteranno, che dovrebbe grosso modo corrispondere alle 109 province, ognuno fornente da 3 a 6 seggi. Rimangono le liste bloccate, cioè non si esprimono preferenze sui candidati ma solo sulle liste di partito (come invece era possibile fare nella prima bozza). Le liste sono però più corte però di un tempo: un minimo di tre candidati e un massimo di sei, il che dovrebbe permettere agli elettori di conoscere i candidati che si sta andando a votare. E’ stato reintrodotto (sempre rispetto alla prima bozza) la possibilità di candidarsi in più di un seggio, fino a un massimo di 8.

La parità di genere Rispetto alle prime bozze, è saltata la parità di genere tra uomini e donne, che era stata proposta seguendo il criterio della composizione di liste in cui i sessi siano alternati.

Legge valida solo per la Camera La legge non è valida per il Senato, visto che la riforma elettorale è stata agganciata all’abolizione, o riforma radicale, di Palazzo Madama sin dai primi emendamenti proposti (inizialmente valeva per entrambe). In caso di elezione anticipata si andrebbe a votare con la legge proporzionale pura uscita dalla Consulta, col rischio palese di avere due maggioranze diverse nelle due assemblee.

Il collage di Renzi garantisce la governabilità, questo è sicuro: solo che se ci fossero due partiti al 25% costretti a giocarsi al ballottaggio il 53% dei seggi, 327 (con gli altri partiti a essersi spartiti il 50% dei restanti voti nella realtà, in parlamento poi molti meno), potremmo definire democratico il potere effettivo del vincitore in Parlamento, quando in realtà nessuno dei due si avvicinava nemmeno lontanamente ad avere un tale consenso? Torneremmo nella stessa situazione delle precedenti elezioni e dell’exploit in seggi del PD.

In questo momento il Partito Democratico si attesta, secondo i sondaggi, attorno al 30-31%, il M5S al 23% e FI al 21%. La distribuzione attuale dell’elettorato pende verso Matthew Mr. Renzie, perciò. Ebbene, riflettiamo su chi davvero merita il nostro voto, perché le prossime elezioni, con una legge come questa e una camera in meno, ci potrebbero consegnare a 4 anni (e anche più) di potere incontrastato di un solo partito…e molto probabilmente di una sola persona.

#èla(S)voltabuona … che ci fottono a vita